Vigile, innamorato testimone della vecchia Udine

di Renzo Valente

Ai tempi in cui gli storici fotografi di Udine, Malignani, Pignat, Brisighelli, Pàris, operavano con grande successo, quello che diventerà il fotografo Tino da Udine neanche si sognava non dico di fare il fotografo ma nemmeno di venire al mondo e forse i suoi genitori, il padre Cristoforo Procaccioli, ciabattino in via Viola, e la madre, Maria Piccoli, casalinga a Segnacco, e Dio solo sa come possono essersi incontrati, neppure si conoscevano, ci sarebbe da giurarlo. Perciò fra i fotografi dei geroglifici e Tino da Udine c’è un vuoto immenso e non soltanto di anni ma anche di mestieri. I fotografi erano già in Paradiso e lui ancora nel Limbo. Cosa faccio, disse, quando fu in grado di parlare, cosa faccio, il ciabattino come mio padre, il falegname come mio zio, il fabbro come mio cugino? Ci penserò. Vedremo, c’è tempo. E in attesa di decidere si occupò di strade, di piazze, di cortili, di giardini.
Fu suo padre, uno di quei padri che ognuno di noi, senza adesso voler offendere i propri, vorrebbe avere, un galantuomo che ha riabilitato migliaia di scarpe che arrivavano acciaccate e ripartivano redente, fu questo padre a fargli fare il fotografo. Una combinazione, un colpo di fortuna. Signor Napoleone disse un giorno fra Cristoforo al fotografo Napoleone Dominici che in quegli anni fotografava dalle sue parti, signor Napoleone, ho questo figlio che si occupa di strade che non rendono. Me lo prenda con lei, gli faccia cambiare mestiere, me lo tolga dalla strada, glielo dò anche per niente, e che il Signore le renda in tanto bene il bene che mi fa. Amen.
Era scritto. Diventò fotografo. Ma non fotografo di mezzibusti, proprio fotografo fotografo, un fotografo sul serio, il fotografo della città, e come Garzoni, da musicista e da inventore di villotte, passò per il Cantore del Friuli, Costantino Procaccioli è passato, passa e passerà, da fotografo, per il Cantore di Udine.
Non v’è angolo della città che non sia stato fotografato, anzi, più angolo era, nel senso della città più nascosta, meno celebrata, più è stato fotografato. Gli udinesi che sono udinesi, e che pertanto dovrebbero e devono conoscere la propria città come le loro tasche, non la conoscono quanto lui e quanto risulta dalle sue fotografie. Si meravigliano. Stupiscono. Rimangon male. Ma guarda, questo non lo conoscevo, mai visto, e dire che sono nato qui. Curioso di ogni avvenimento che avrebbe dovuto accadere, lo preveniva. Domani buttano giù questo cine e il cine veniva fotografato quando era ancora intero. E siccome della città è stato fatto un macello e la sua faccia è cambiata, la faccia, vergogna eterna di chi gliela ha cambiata, prima di perderla, è stata invece eternata, si fa per dire, anzi, documentata dalle sue fotografie. Come pure documentati, anzi eternati, sono i protagonisti in città dei più poveri mestieri, del più povero artigianato, addirittura dell’improvvisazione, la caldarrostaia di via del Freddo, il mercato il mercato dei mastelli e quello delle galline in via Zanon, gli scaricatori degli stampi di ghiaccio, gli accalappiacani, i portabagagli, i ciarlatani, gli ambulanti, i maniscalchi, gli
spalatori di neve, gli spazzini, gli stradini, gli arrotini, i materassai, le filandiere, le fioriste, le telefoniste, le lattaie, i venditori di spugne, e fra questi; e con questi, l’arcivescovo Battisti, Tessitori, Hemingway, Alberto Sordi, Turoldo, Garzoni, Max Piccini, Giovanni Saccomani, Toni Menossi, Elci Marcolin, Ottavio Valerio, Chino Ermacora, Corgnali, un Loden in via del Gelso che contiene me stesso, e poi le scene parlanti che dànno la dimensione della città, il Sabato Santo con le donnette in piazza San Giacomo che si lavano il viso allo scampanio del Gloria, la Pasquetta sui prati di Santa Caterina, la Pesca pasquale di beneficenza sotto la Loggia del Lionello, i fuochi invernali fra le bancarelle di piazza San Giacomo, le giostre, la tombola, la quintana, la parata militare in Giardino Grande, i tritoni nella vasca da nuoto della Stampetta in Piazzale 26 luglio, la sagra delle chiavette e del pane di San Valentino in via Pracchiuso, la benedizione delle gole in castello, i regali della Befana ai Vigili urbani, la vendemmia sul Collio, i mosaici ad Aquileia, la famiglia che mangia e dorme sotto il cavalcavia, i ragazzini che giocano fra le macerie delle scuole di San Domenico in via Viola con le palline di terracotta, le ragazzine che vendono ciclamini per le strade della periferia, le marionette di Galanti e di Miani nel teatrino di via Magrini, le carrozze superstiti in piazza San Giacomo passo d’amore, la copertura della roggia in via Grazzano, le briciole dell’Eden appena demolito, le briciole di porta Poscolle che stanno demolendo, l’abbattimento degli alberi in via Leopardi, l’agonia e la morte del platano di via Zanon, uno dei suoi grandi amori.
Non sono solo fotografie, sono testimonianze di un’epoca, di una civiltà, di un modo di vivere che esaltano questa città, questa regione, questa parte d’Italia che, grazie anche a lui, non è soltanto di bevitori. Ebbene, qualche settimana fa un casuale confidente, che evidentemente, ma ci vuole poco, vanta in città aderenze ben più importanti delle mie, se ne avrò mai una, mi ha informato, forse, chissà, ritenendo che la circostanza, tenuto conto dei cedimenti dell’anima, mi avrebbe potuto interessare più che non altri, che il fotografo Tino, ma sì, proprio lui, quello delle strade, il figlio di Cristoforo, quel Tino da Udine che firma con questa firma le sue fotografie, i suoi racconti, i suo gridi di dolore, però senza svolazzi, senza ghirigori, senza intrecci, Tino da Udine e basta, avrebbe presentato, di lì a poco, una mostra personale, alla Galleria del Centro di via Odorico da Pordenone.
E roba per te, mi ha detto concludendo, il discorso, aspetta che la mettano su e poi ci andrai. Non c’è fretta. Dura una quindicina di giorni. Vai, te lo consiglio. Non te ne pentirai. Troverai raccolto tutto insieme ciò che fino a ora hai visto a spezzatini. Vedrai, sarà uno spettacolo grandioso con morti e vivi, e se i morti non si vedono poiché da questa terra sono stati cancellati, vivi sarebbe meglio che non li vedessi. Comunque prova. E gli scese una lacrima sul viso. Fra gente ammalata dello stesso male ci si intende. Alludeva alle cose che c’erano e che non ci sono più e alle cose, anzi, alle cosacce, che le hanno sostituite, che hanno preso il loro posto. È una mostra di lacrime, ma andate a vederla lo stesso. Fra Cristoforo vi benedirà.

È morto a 69 anni, dopo lunga malattia, il fotografo Tino Procaccioli, in arte Tino da Udine, valente cantore della città, dei suoi scorci segreti e della sua gente, nonché vigile e dolente testimone dei mutamenti che spesso ne hanno stravolto la quieta bellezza. Nel ricordo di Tino (ai cui familiari vanno le affettuose condoglianze del Messaggero Veneto, pubblichiamo uno scritto che Renzo Valente gli dedicò nel 1993, in occasione della mostra fotografica al Cfap.