di Renzo Valente
C’è una notizia, una brutta notizia, che richiama un’altra volta su questo stesso angolo di giornale il nome dei Prevedello di piazza San Giacomo che già vi apparve in quanto coinvolto in eventi di comune interesse.
È proprio una brutta notizia. Chiudono. Sono secoli che siamo qua, dice press’a poco l’avviso, abbiamo tirato avanti anche troppo, ora basta, chiudiamo. Chiudono. Domani si spegneranno le luci, si esauriranno le voci, caleranno le saracinesche e si farà notte. Una mazzata. Per la piazza è un duro colpo, per me mortale. A parte il fatto, ed è già molto, che la piazza dovrà privarsi anche del secondo occhio, l’altro era quello di Scaini, ciò che personalmente mi brucia è il rimorso di essere stato l’autore di una carognata commessa al tempo in cui gestivo la mia filanda di via del Monte e che potrebbe essere la causa di quanto sta avvenendo.
Era accaduto che sul finire delle operazioni d’uso, le mangiate, le dormite, il ritiro nel bosco, la mia produzione, ciò che di meglio potevano dare i dieci bachi che allevavo in cucina, fosse contesa da parecchi intenditori che mi stavano alle costole. Erano folla. Si facevano largo a gomitate, si contendevano la testa della coda, ricorrevano ad astuzie lecite e illecite, insomma la voglia di accaparrarsela era tanta e tanto evidente che i bachi stavano ancora ultimando il loro lavoro che nemmeno aspettavano che lo terminassero. E allora, come va, come sono quest’anno, hanno mangiato, hanno dormito, hanno passeggiato, ingrassano, saliamo un momento a vederli? Mezza Udine li aveva visti, ammirati, esaltati, complimenti complimenti, sono proprio dei bei bachi. Si può prenotare?
Anche Prevedello se ne interessava, figurarsi, chiedeva, seguiva, controllava, verificava, e sviolinava, bèvistu un tâio con noi, gâstu fame, gâstu sete, gâstu sèn, mi raccomando. Mi coccolava, mi ungeva, cercava di corrompermi, forse intendeva comperarmi e si raccomandava. Mi raccomando.
Si raccomandava, sperava di avere la precedenza, la preferenza, un trattamento di favore, e mi stava sotto. A che punto sono, come stiamo, come siamo. Mi era antipatico. Stiamo che siamo in parola con la Ditta Spezzotti. Una carognata.
Erano gli anni in cui lavoravo con la concorrenza, neanche lavoro, una partecipazione a termine, una alternativa alla filanda, una mano in via del Monte e una in via Canciani, per dirla fra noi andavo in via Canciani a passare le vacanze.
Era stata un’idea di mia madre. Dopotutto, mi disse, Cortina, Capri, la Costa Azzurra sono le solite menate e te poderîa anche stufârte. Prova a cambiare, almeno ogni tanto, chissà, qualche volta abbiamo l’America in casa e andiamo a cercarla dove che non la troviamo.
E con quella di trovare l’America in casa, accettai. Quando si comincia? Anche subito. Seguii le istruzioni, non potevo sbagliare, erano della mia parrocchia. Attraversai la piazza, diedi un’occhiata ai Prevedello tenendomi alla larga,
infilai i portici di via Canciani, mi presentai. Accoglienza e ambiente da cinque stelle, contratto essenziale. Cinque lire alla settimana, pulizie interne ed esterne, recapito pacchi, orario dalle alle, puntualità e precisione. Buon lavoro.
Fu la mia fortuna. Mi affidarono una bicicletta militare e un carretto di ferro, mi si aperse il cuore, quanto li avevo sognati, e non aveva nessuna importanza il fatto, che la bicicletta fosse senza freni e il carretto un fracassone, anzi, avesse avuto i freni e non avesse fatto rumore, che America sarebbe stata?
Era ora. Finalmente una vacanza seria. Queste sì che erano vacanze, altro che quelle di Capri, di Cortina e della Costa Azzurra che finivano sempre per rimbambire i muscoli e annacquare lo spirito, mentre invece correndo in bicicletta e facendo correre il carretto i muscoli si tendevano e lo spirito si accendeva. Aveva ragione Carnera, mens sana in corpore sano, e Carnera di queste cose se ne intendeva.
Avevo una infinità di clienti, un carnet strapieno, montagne di pacchi sulla bicicletta, altrettanti sul carretto, c’era da darci dentro, correvo in bicicletta come Girardengo, spingevo il carretto come Maciste, e quando passavo davanti a Prevedello facevo di tutto perché notasse i carichi che andavo a recapitare. Guarda qua Prevedello, vestaglie, vestiti, cappotti, chilometri di pòpelin, di mussola, di madapolàm, pile di fazzoletti, di salviette, di tovaglie, sacchi di crine, di lana, di cascàmi, guarda qua, vestiamo tutto il mondo mentre tu neanche la Casa di Ricovero.
Un lavoro da cani, una faticaccia che affrontavo però con un carretto che era da formula uno e con una bicicletta che era un carnevale, allegra, socievole, vacanziera, priva di fronzoli superflui, senza freni, senza campanello, senza càrter, senza parafanghi, senza pneumatici, gomme piene e rapporto fisso. Un capolavoro di bicicletta, con la quale, emulando D’Annunzio che andava a cercarsi i pericoli e non ne aveva mai abbastanza, andavo a cercare le buche più profonde, le pietre più sporgenti, gli spigoli più promettenti, per farla saltare, per saltare io stesso e per sentirmi saltare dentro le viscere che dopo gli ozi di Cortina, di Capri e della Costa Azzurra minacciavano di addormentarsi.
Una volta pioveva. Provenivo da piazza San Giacomo e correvo che era un piacere quando, dal portico della Vitrum, esce all’improvviso, tendendo una mano per sentire se pioveva ancora e quanto, un donnone, una gigantessa, verosimilmente una balia bagnata, davanti alla quale mi arrendo. L’urto è inevitabile. Le sono sopra come un bolide, affondo la testa nella latteria, rimbalzo, piombo a terra, sprofondo negli abissi di una pozzanghera e vedo la bicicletta, scappatami da sotto, imboccare sbilenca, ma ancora in equilibrio, il portico di Prevedello e abbattersi ai piedi proprio di Prevedello che stava sulla porta a godersi lo spettacolo. Grondavo come un palombaro, camminavo come Ridolini, sorridevo forse da ebete, e la rincorsi. Eccola là. La raggiunsi, la raccolsi, la misi in sesto, alzai gli occhi e incontrai i suoi. Mi aspettavo ironia, disprezzo, soddisfazione e invece erano ben disposti. Ci fu comprensione, dimenticammo i trascorsi e facemmo pace.
E con questa pace firmata sul campo dagli antenati, i posteri dovrebbero continuare a tenersi il muso? Ma dài, finiamola, mettiamoci una pietra sopra, azzeriamo tutto e ricominciamo da capo, riprendiamo da dove abbiamo lasciato, coraggio, non siete più soli, vi darò una mano, contateci.
Contateci ma ripensateci, resistete, tenete duro, piazza San Giacomo senza Prevedello è come il Campidoglio senza Marc’Aurelio, non ci ritroveremmo più, potrebbe essere qualunque altra piazza ma non piazza San Giacomo.
È rimasto già poco di quanto avevamo, ci manca questo e ci manca quello, abbiamo perduto questo e abbiamo perduto quello, non c’è più questo e non c’è più quello, e adesso vorreste infierire, vorreste contribuire alla disfatta, vorreste darle il colpo di grazia? Rimangiatevi quanto avete detto e io vedrò in filanda se c’è ancora della seta, dovrebbe esserci, caso mai è vostra. Parola di filandiere.