Quei due gemelli chiamati la peste

di Renzo Valente

Devo delle scuse e delle spiegazioni al lettore che abitualmente frequenta questo angolo di giornale se appena due settimane fa, alla scadenza del mio turno quindicinale, invece del solito piagnisteo, si è trovato davanti a uno di altro tipo, nel quale, benché abbastanza lacrimoso anche quello, probabilmente non mi ha riconosciuto.
È una mia supposizione, intendiamoci, ho detto probabilmente, tuttavia darei per certo che una sorpresa c’è stata.

Uno va nell’angolo, crede di trovare una cosa e invece ne trova un’altra, non so se mi spiego. Dovevo almeno avvertirlo, bastavano poche parole. Senta, Signor Lettore, poiché Lei è l’unico che mi è rimasto a non vorrei che anche Lei cambiasse angolo, guardi, Signor Lettore, non se la prenda, si prepari, la prossima volta non troverà il solito piagnisteo, ne troverà un altro. Così si doveva fare. Un minimo di riguardo doveva essere usato, era sufficiente. Invece niente, non l’ho usato, sono stato un asino, pertanto scusi, Signor Lettore, Le chiedo scusa e Le spiegherò anche come e perché è successo.
Chiarisco subito. Un piagnisteo costa, qualcuno crede che costi come un cade dalle scale e si frattura un femore, si sbaglia, costa di più. Intanto pazienza, bisogna avere tanta pazienza, andare a cercarlo, trovarlo, adottarlo, crescerlo, vestirlo, imbellettarlo, metterci dentro un po’ di piangere e un po’ di ridere, un po’ di sale e un po’ di pepe, un po’ di cannella e un po’ di noce moscata, agitarlo, mescolarlo, frullarlo e poi quando si sforna e si crede di avere fatto un capolavoro accade magari che faccia schifo, si debba scartare e ricominciare da capo.
È il momento che viene la nausea, che si manda tutto a remengo e si cambia. Che cosa si fa? Il tempo massimo sta per scadere, non si può aspettare di più e allora si prende la prima piazza che capita fra i piedi, mettiamo una piazza Venerio qualunque, e si sostituisce. È un rappezzo, d’accordo, un tappabuchi, un cerotto, però qualche volta serve e conviene utilizzarlo.
Piazza Venerio, piazza della frutta e della verdura, c’ero anch’io. Quella piazza, quegli anni. Erano gli anni in cui venivo a vedere come stavano Bibì e Bibò. Gavéo léto el Coriére, ci diceva la madre di un nostro compagno di scuola che aveva un bel bancone di mele e radicchio ai margini della piazza, un pezzo di pane, un miele, un rosolio, gavêo lêto el Coriére, ci chiedeva e intendeva il Corriere dei Piccoli, e poiché non lo avevamo letto né ci sognavamo di andarlo a leggere in altri luoghi, ci pensava lei, ciapè qua putêi, legêveselo, istruîvese, imparè a esser più bôni, e ci aggiungeva anche una mela per fare merenda. Chi erano Bibì e Bibò? Occorre spiegarlo chi erano?
Fossimo il popolo di santi, di poeti e di navigatori che ci vantiamo di essere, la Filologica funzionasse, la Treccani se ne occupasse, non ce ne sarebbe bisogno e invece dobbiamo.
Bibì e Bibò erano i terremoti di Capitan Cocoricò e della Tordella, i terremoti, due gemelli rivoluzionari che ne facevano di tutti i colori, erano anticonformisti e mi piacevano da morire. E’ vero. Sostanzialmente mite, remissivo e un poco anche mona, abituato da sempre a credere senza combattere, uso a obbedir tacendo, a vivere per modo di dire, l’anticonformismo di quei due mi accendeva, mi teneva acceso, mi incendiava, era diventato la mia bandiera.
Che meraviglia quindi se più tardi, molto più tardi, ma il ritardo non ha né influito né condizionato, li ho sostituiti con altri due, terremoti anche loro e come loro la peste?
E’ stata una folgorazione.
I gemelli Serafini, Carlo e Augusto Serafini, avevano l’anima e le bollicine di Bibì e Bibò.
A Udine e dintorni li conoscevano come la betonica. Due gocce d’acqua che bolle, che fa saltare i coperchi. Parevano proprio Bibì e Bibò, anche loro, come loro, ne avevano fatte e ne facevano di tutti i colori a casa, a scuola, in caserma, in città, in campagna, in montagna, al mare, anche in chiesa, anche nel confessionale, che anche lì, e speriamo che il Signore li abbia perdonati, hanno imbrogliato il prete. Si scambiavano le parti senza che nessuno se ne accorgesse, se uno non sapeva la lezione andava fuori l’altro che la sapeva, quando uno dei due era consegnato in caserma mandava l’altro all’appuntamento con la morosa, dîme almeno a che punto che sê rivâi, e in famiglia, da piccole canaglie, l’innocente le prendeva al posto del colpevole, accadeva spesso, si assomigliavano così tanto che era un piacere non saperli distinguere.
L’ho raccontata ancora, la racconto un’altra volta, c’è sempre qualcuno che non l’ha sentita o che l’ha dimenticata. Ne vale la pena, è una bomba.
A Cividale c’era un barbiere che rischiò un colpo apoplettico. Una domenica mattina entra uno dei due. Barba. Stia attento che mi ricresce subito. Non si preoccupi, lasci fare a me, con me le barbe non scherzano. Rasato come il culetto di un bambino, il gemello si alza, si passa le mani sulle guance, pare soddisfatto, speriamo bene, paga e se ne va.
Di lì a un paio d’ore entra l’altro con la barba lunga. Al barbiere viene un colpo, non crede ai propri occhi come non crede ai suoi il ragazzo spazzola che insieme al padrone guarda annichilito il fenomeno che va a sedere sulla poltrona. Glielo lo avevo detto che mi cresce subito. Il barbiere è annientato, distrutto. Gli si avvicina, lo palpa, lo ripalpa, gli tira i peli per vedere se sono veri e siccome non sono falsi allunga uno schiaffo al ragazzo spazzola che stà lì a non guardare con la bocca aperta. Va a fâ la savonâda tu.

Come sembrano cose sepolte nella neve. Li abbiamo perduti tutti, siamo rimasti in un deserto, in un cimitero, niente più Capitan Cocoricò, niente più Tordella, niente più i terremoti, morti e sepolti Bonaventura, Barbariccia e il Bassotto, morti sepolti Arcibaldo, Petronilla e Cirillino, morti e sepolti Fortunello e Omobono, morto sepolto Pampurio, morti e sepolti tutti, si sono ritirati, hanno tolto il disturbo erano in arrivo i rambi, bisognava sgomberare la piazza.
Del resto anche per me, come per i due Serafini, era finita l’età degli anticonformisti e d’un tratto personalmente mi vergognai, e mi vergognai anche di non essermi vergognato prima, di ripassare davanti al Dorta, con i calzoni ancora corti e con i calzetti a mezza gamba. E non so che cosa di bello e di grande mi parve di sentire dentro e fuori di me il giorno in cui, chiedendo, pregando, implorando, suppplicando, anticipando i tempi, cominciai a mettermi quelli lunghi e non più salutavo le signore con l’inchino ma con il cappello in mano, e avevo la cravatta.
Ero felice, radioso, raggiante, esultavo, credevo di toccare il cielo con un dito e non sapevo invece, non immaginavo, non mi rendevo conto che proprio quei calzoni, quella cravatta e quel cappello stavano liquidando per sempre un mondo beato nel quale più tardi, infinitamente rimpianto e vanamente rincorso, sarei ritornato tanto volentieri.