Addio al lettore se ne rimane uno

24/08/1997

Come è già avvenuto in altre occasioni che la vocina della coscienza mi rimproverasse per ciò che non avrei dovuto fare e che invece avevo fatto o per ciò che avrei dovuto fare e che invece non avevo fatto, prima di addormentarmi, diceva la nostra maestra di via Viola, ascoltate la vocina della coscienza, ascoltatela e meditate, e il sonno non veniva, e le coperte pesavano, e la notte era lunga e nera, capita adesso, benché in ferie e in attesa di riprendere quanto prima, di sentirmela ancora addosso per rinfacciarmi la presunzione con cui continuo ad occupare questo angolo di giornale senza voler ammettere che il mio tempo è finito. Dovresti vergognarti, dice, ora di smettere, il limone stato spremuto abbastanza, non da più niente, sei spompato, non hai più l’estro di una volta, il prodotto è scadente, non è più fresco, genuino, naturale, ti vengono fuori angoli fiacchi, scoloriti, insipidi, spesso li pasticci, li riscaldi, addirittura li ricicli, insomma sono angoli irriconoscibili rispetto ai precedenti che bene o male, più male che bene ma pazienza, si riusciva ancora a sopportare, non insistere, desisti, arrenditi, ritirati, cedi l’angolo a qualcuno che se lo merita più di te, non approfittare di chi ti ha dato la possibilità di sfogare i tuoi magoni e adesso magari si è stufato ma non ha il coraggio di dirtelo in faccia sperando che sia tu stesso, di tua volontà, motu proprio, a rinunciare e a fargli pertanto risparmiare un antipatico avviso di sfratto.
La vocina della coscienza. Questa vocina. All’anima della vocina. Me ne ha dette tante e tante che alla fine, volente o nolente, più nolente che volente, se mai dolente ma ormai quasi persuaso che la vocina avesse ragione, ho dovuto scrivere al direttore una lettera con la quale lo informavo di aver deciso, anche su suggerimento della coscienza che si era fatta viva con la sua vocina mite, gentile, convincente, all’anima della vocina, di chiudere bottega. Caro direttore, gli ho scritto, ti comunico che a partire dalla data odierna il mio impegno con l’angolo deve ritenersi esaurito. Per ulteriori notizie e chiarimenti potrai rivolgerti direttamente alla vocina della coscienza, via d’Azeglio 2, Udine, cap 33100, telefono 509750, prefisso 0432 per chi chiama da fuori Udine. Cordiali saluti e la firma.
E’ venuto quindi anche per me, come accade fatalmente a chi lascia qualche cosa di suo a cui ha voluto molto bene, nel mio caso una creatura nata, allevata e cresciuta in casa e non appena adulta portata passo passo, all’età matura, è venuto anche per me il momento difficile del distacco. Un distacco difficile e laborioso. Anche laborioso. Ci sarà da allontanare la preoccupazione di non aver dato quanto potevo e dovevo, da verificare compiacenti applausi, forse convenzionali ma accettati lo stesso, da assolvere qualche peccato di vanità e di arroganza, da riparare errori, da smussare spigoli fastidiosi, da giustificare contraddizioni, da consolare rimorsi, da soccorrere rimpianti e nostalgie che gia cominciano a farsi sentire.
Tutto questo, e forse anche altro che volutamente trascuro per contenere il passivo, è ciò che mi costa la separazione, ma sarebbe ancora poco se ad essa e a quanto di brutto essa stessa sta tirandosi dietro, non ci fosse da aggiungere anche la pena di dover perdere per la strada le pacifiche ombre del mio passato che puntualmente, ogni quindici giorni, per cinque anni di seguito, ho richiamato dai grandi silenzi dell’oblio e poi sistemato su questo comodo, discreto, provvidenziale angolo di giornale.
Siamo di male. Dolori. Pensieri. Interrogativi. E adesso, viene da chiedersi, adesso che non ho più l’angolo, volendo riaprire il discorso arbitrariamente interrotto dallo sciagurato intervento della vocina, dove mai potrò ricostruire la mia casa di via del Monte, quel quarto piano del numero 6 che fu il caldo nido di tre pulcini guardati a vista da una chioccia che sapeva essere tenera, ma anche lavorare a macchina, dove mai potrò ripopolarla, rianimarla, farne risentire le voci, farne rivedere i bei sorrisi? Dove mai, adesso che vi ho rinunciato, potrò riparlare della casa delle zie di via Manin, il portico del numero 9, i cinquantacinque scalini, il campanello a chiavetta, sêo qua, semo qua, le castagne, le favette, la ribolla, il rosario, l’eterno riposo, amen, cosi sia, tira fôra la Tombola, il budino e il vin dolce, auguri auguri auguri, se sêo lavai le man, a Natale e a Capodanno? E dove mai, adesso che l’ho restituito, dove mai potrò ricollocare la scuola di via Viola, riordinare le sue aule, riportare sulla cattedra le sue maestre, riscrivere i temi della primavera, le rondini, le violette, l’aria profumata, era una bella giornata di primavera?
E dove mai, adesso che mi è stato tolto, potrò riattivare il Ricasoli di Giosuè, il Castello delle opere e del pindul-pàndul, il Giardino Grande del Circo Zavatta, della donna cannone e dei tiri a segno a piumini, dove il mio Moretti e i miei balonieri, dove le mie trattorie, le mie osterie, i miei caffè, dove i miei cinematografi, Tom Mix, Ridolini, Rodolfo Valentino, dove i Veglionissimi del Sociale, i matinée dell’Olimpia e della Rotonda, i tè danzanti dei Gruppi Rionali, la vârdi signora che nâpa chel gâ quel lì, e dove le messe del chierichetto, la scrivania del Popolo del Friuli in via Carducci, la caserma di via Grazzano, la Stampetta di Porta Poscolle, le spanciate nel Cormôr di Santa Caterina, le marinare negli abissi del Torre di Zompitta, tritoni e sirene arrostiti da un sole casalingo ma ufficialmente di Grado e di Lignano ?

E dove mai, infine, adesso che devo farne a meno, dove mai, volessi integrare le notizie già riportate con altre più nuove, dove mai potrei ricomporre le mie piazze, le nostre piazze, le piazze di quella volta, piazza Vittorio e piazza San Giacomo, una piazza Vittorio ancora con il Re a cavallo, ancora con l’Eden, ancora con il Corazza, ancora con il tram, con le carrozze, con le 509 e con i pampalughi seduti in riga sul gradone del terrapieno che controllano il passaggio, vârda quela là che gambe storte che la gâ, una piazza San Giacomo ancora senza i gazebo, senza i palcoscenici e senza i Tarzan che vi urlano sopra, ancora con i gerani e le tendine alle finestre, ancora con le ceste della verdura, con i banchetti dei formaggi, con i banconi dello strutto, delle salsicce e del cotechino, ogni musêto comprà un scartosso de frisse regalà, ancora con i bicchieri e i piatti di Alberghetti, ancora con la pasta fresca di Gattolin, ancora con la varechina e il Super Iride di Scaini e con il Caffé Barbaro che vende ancora cappuccini e non ancora detersivi?
Dove mai dunque, adesso che mi hanno giubilato, dove mai potrò ripulire e rimettere in piedi questi fantasmi dal lenzuolo rosa, questi cari fantasmi che sono stati il magico lievito delle mie memorie e forse anche di quelle di quei pochi lettori che a quest’ora mi saranno rimasti, come dice la vocina, e che involontariamente, mio malgrado, ho coinvolto nella mia disgrazia?

Si piange anche per meno ma si piange anche per questo e la vocina non perdona. Ebbene, dice, ci mettiamo anche a piangere adesso? Ma dai, non fare il bambino, asciugati, tirati su, saluta invece, comportati come si deve, fa le cose per benino, saluta, quando si parte si saluta, dovresti saperlo. Raccomandazioni da asilo infantile. Figurarsi. Per salutare si può anche salutare ma poi a qualcuno dispiacerà? Vorrà che continui? Tenterà di convincermi a riprendere? Chissà. A occhio e croce non mi pare. Valente se ne va? Era ora.

Uno due tre liberati.

Renzo Valente

Mi colloco in testa alla fila sicuramente lunga dei postulanti: Torna Rensuti, non ci lasciare. In questi mesi di latitanza, non hai idea di quanti lettori abbiano chiesto “dov’è finito Valente?”. E io, che ti conosco, a rispondere: sta fingendo di litigare con la sua coscienza, ma alla fine, vedrete, la vocina sarà inghiottita da un coro assordante, il nostro. Confido di avere detto il vero.

s.g.