I novanta di Fred celebrati a Dogna

di Renzo Valente

Ad appena due settimane dal giorno in cui mi sono occupato dei compleanni, in particolare di quello del defunto Ospedale della Misericordia, debbo ora ritornare sull’argomento, e lo faccio volentieri in quanto coinvolto personalmente, per far sapere a chi la notizia potrebbe interessare che a Dogna ne hanno scoperto un altro.
È una bella notizia, consola, appaga, soddisfa e lascia ben sperare. Siamo sulla strada buona. Il polverone che io stesso ho sollevato per protestare contro il modo scriteriato di gestire i compleanni, alcuni impropriamente celebrati, altri indicati a vanvera, altri ancora addirittura ignorati, pochi azzeccati, comincia a dare i suoi frutti.
Era ora. Dopo tanto che si è predicato, che si è consigliato, che si è raccomandato, finalmente pare che ci abbiano capito. Che ci voleva? Uno muore, si va a vedere quando è nato, si prende nota, e allo scadere del compleanno, se lo merita, si celebra, caso contrario niente. L’uovo di Colombo. Elementare. Non occorre essere dei Leonardi per riscattare un compleanno, non è necessario inventare chissà che cosa per conoscerlo e per farlo conoscere a chi ancora non lo conosce, basta un po’ di buon senso e un minimo di buon gusto.
Ma che cosa è successo a Dogna? Presto detto. Intanto la carta di identità. Vediamo. Dogna non è una città della Costa Azzurra e nemmeno una Cortina delle Dolomiti, non attira né galli né pappagalli, è soltanto un paesino del Canal del Ferro che non arriva a trecento abitanti, fra i quali, a suo tempo, Fred Pittino che vi nacque nel 1906. Niente di più, un paesino di legname e di rocce, nient’altro. Ebbene, nonostante che a Dogna sian rimasti in pochi e che quei pochi abbiano altro da fare e altro da pensare, gli stessi pochi hanno ugualmente trovato il tempo e la voglia di onorare il concittadino che li ha onorati. Quest’anno Pittino, fosse ancora con noi, ne compirebbe novanta, non è più con noi, li compie lo stesso. A Dogna si sa fare i conti degli anni anche se manca chi li compie e si sa anche come e a chi presentarli. Sono novanta. Che cosa facciamo? Qualche cosa si deve fare. Si tratta di un concittadino che ci è servito. Dogna lo deve a lui se qualcuno che non sapeva neanche se esistesse adesso lo sa. D’accordo, qualche cosa bisogna fare ma che cosa.
Si può fare questo e si può fare quest’altro, noi faremmo questo e non quello, noi quello e non questo, noi invece questo e quello, e alla fine, tirate le somme, trovata l’intesa, gli intestano una piazza, Piazza Pittino, suona anche bene, gli immurano una lapide sulla casa natale, gli mettono su una mostra nelle scuole, e sarà bello per il forestiero che passa da quelle parti chiedere a uno dei trecento che strada si prende per andare in Piazza Pittino, come sarà anche bello fermarsi davanati alla sua casa e leggere l’epigrafe, qui é nato, il Comune pose, come pure sarà anche bello, se è ancora in piedi, fare i pellegrini nei corridoi della mostra.
La vita qualche volta. Ci si ritrova abbastanza vecchi, si beve insieme un bicchiere, si parla, si commenta, si disapprova, gastu visto che i demolisse l’Eden, gâstu visto che i covêrse la rôia, gâstu visto che i bûta per aria piassa Venerio, purtroppo purtroppo, e in via Marinoni vâstu mai?
In via Marinoni 14, un gran palazzo sulla strada, un gran giardino dietro, una casetta da Biancaneve nel giardino, in date diverse, per ragioni diverse, per durate diverse, siamo stati entrambi, Pittino prima, io più tardi, Pittino vi aveva lo studio, io la Circe.
Erano gli anni in cui la città era ancora una città per bene, mite, gentile, pulita, e benché pacioccona, rinunciataria e musona, proprio un paese col tram come la definivano i vitelloni di allora, elegante e distinta. La piazza senza aghi, le strade sicure, i marciapiedi sgombri, i cinematografi ancora da abbattere, i caffè ancora da eliminare, le osterie ancora a quartini e non già a lattine, le trattorie ancora a pasta e fagioli e non già a pizze, i ristoranti ancora friulani e non già cinesi, le rogge che si vedevano, i soldati in borghese che non si vedevano, gli schiocchi dei baci che non si sentivano, i codini che non crescevano, gli orecchini che erano ancora nelle orecchie e non già negli orecchi, e anche quel giardino di via Marinoni, perché no, con le vetrate degli studi dei pittori, degli scultori, dei registi e dei fotografi, di Pittino, di Piccini, dei Basaldella, di Galanti e di Silvio Maria Bujatti, perché no, paesaggi dolci, testine amabili, pellicole innocenti, fotografie di nuvole e di lune.
È stato un giardino che era un Eden, un Eden familiare, bonario, alla mano, senza rischi, senza pericoli, senza serpenti e senza mele, vi stavo da pascià, mi pareva di avere una seconda casa, credevo di rimanervi in eterno, e il giorno in cui dovetti invece lasciarlo per raggiunti limiti di età, fui mago incauto e sprovveduto ad escludere a priori, cedendo a presuntuose intuizioni, che mai più, di lì in avanti, per quanti anni o mesi o giorni mi fossero rimasti quaggiù da consumare, quel giardino di via Marinoni 14, al quale attingevo inesauribili memorie di soste gaudiose e di confusi amori giovanili, sarei mai riuscito a ricostruire.
Non ci speravo più, non ci pensavo più, vi avevo messo una pietra sopra, e invece, al ritorno di Pittino e a quello più fumoso e più fugace di una ignara Circe casalinga a cui, nello stesso giardino, avevo consacrato silenzi adoranti, riprese d’un tratto le originarie dimensioni, si umanizzò, incarnò le ombre. Con gli alberi ringiovaniti, con i bambù rinnovati, con l’edera rinfrescata, risuonarono le voci di quegli anni e al chiarore della luna si riconobbero i volti dei compagni che non ero riuscito a trattenere, quello del povero Lorenzo Menchini, quello del povero Italo Trojàn, quello del povero Toni Paretti, quello degli altri poveri, di Ettore Tonizzo, di Melchiade Plateo, di Bruno Castellani, poveri anche loro, e si riconobbe il bel sorriso su quello del povero Mario Bartesaghi, che allora, pilota a Campoformido con la pattuglia di Fougier e ala sinistra dell’Udinese di Mìster Fogl, era già una favola.
L’incanto è durato poco ma prima che tramontasse la luna e si spegnessero le voci, si fece sentire quella di Silvio Maria Bujatti, che nello stesso giardino, passando e ripassando, non ho tempo, non ho tempo, stava accatastando cavalletti e macchine a folo, pronto, di lì a minuti, a salire sulla 509 del padrone di casa, di quel serafico Gino Plateo, giocatore della prima Udinese, pioniere del volo sui lunghi prati di Planis e adesso stregato anche lui dalle nuvole, dalle aurore e dai tramonti, che l’avrebbero poi portato in giro per il Friuli.
Correvano gli anni in cui sotto i portici del Dorta, in Mercatovecchio, appendevano sottovetro le migliori, ritratti, paesaggi, nature morte, una volta una signora nuda distesa sul sofà, purtroppo la mia Circe, proprio lei, fotografata nuda probabilmente in un momento di follia.