di Renzo Valente
A proposito dei barbieri che in altre occasioni, per meriti o per demeriti, sono stati richiamati dai grandi silenzi dell’oblio e poi trasferiti su questo stesso angolo di giornale, c’è qualcuno adesso che mi segnala uno della Pedemontana. Te lo segnalo, dice, perché merita. Si tratta di Giuseppe Cragnolini, un barbiere della vecchia guardia che ha compiuto da poco ottant’anni, suppergiù i tuoi, e lavora ancora. Dodicenne a Udine per imparare il mestiere, nel 1936 apre bottega nel paese natio e da allora vi è rimasto. Non ne è più il titolare, il salone è passato al figlio Elio, però non intende stare con le mani in mano, e ogni tanto, appunto, va in negozio a dargliene una. L’età non lo tradisce. Tocco morbido, leggero, delicato. Il signore è servito, ragazzo spazzola, la vita continua. Mi pare che meriti, dice, vedi se puoi fare qualche cosa.
Emblematico. C’è il barbiere che onora la categoria e il barbiere che la rovina. Una volta avevo i capelli lunghi. Capitava. Nessuna meraviglia. Mesi senza regolarli. Vârda come che i ghê crêsse i cavêi a sto putêl qua. Tocherà de mandarlo dal barbiêr. Sospiravano. Costava. C’erano altre urgenze e prorogavano. Te anderà la sètimana prossima. Invece mesi.
Però quella volta non si poteva rimandare. Adesso bisogna dissero dolenti, te pâr un fîo de nessùn, de vergognarse. Stabilirono che sarei andato da solo. Ormai sei grande, puoi arrangiarti. Che ci vuole? Mezza via del Monte, mezza via Pelliccerie, tiênte sôto la Cassa de Risparmio, quâtro passi ancora e quando che te rîvi sul cantòn de via del Carbone te gâ la botêga lì de fronte. Te sa pur, su mo, su mo, no stâ a far el gnôgno.
Partii che neanche Cristoforo Colombo quando partì per le Americhe aveva avuto tanti pensieri. La sfumatura doveva essere alta, le basette rasate a zero, ciuffo nemmeno parlarne, apena apena all’Umberta, un dito davanti più che sufficiente, il resto quasi niente. Anche massa. Te pár bon così e come tajada la dura de più.
Arrivai, entrai, bongiorno bongiorno, era pieno. Due barbieri più il ragazzo‑spazzola. Siedi lì, sedetti, c’era da attendere, attesi, e mentre mi guardavo intorno e mi ripassavo quello che di lì a poco avrei dovuto raccomandare, la sfumatura, le basette, l’Umberta, a sorpresa mi chiamarono e mi misero nelle mani proprio di quello che secondo me avrebbe dovuto occuparsi soltanto delle spazzole ed eventualmente delle mance. E jè ore ch’al scomênsi, dissero, prova con questo qua, e scomparvi in un lenzuolone dal quale vedevo e sentivo le forbici, e zac e zac e zac, che venivano, che andavano, che ritornavano e che sostavano quanto basta. Avrei voluto interromperlo e raccomandargli ciò che ormai sappiamo ma sotto quella furia non seppi trovare il momento adatto e dovetti rimandare a tempi più ragionevoli se mai ne fossero poi venuti.
Pietrificato, inebetito, imbambolato, e zac e zac e zac, sentivo uno che ogni tanto veniva a dare un’occhiata, a insegnare, a correggere, a rilevare i difetti e a indicarli presumibilmente con un dito. Taglia qua, taglia là e poiché il criminale tagliava qua e tagliava là mi venne di pensare che almeno in questo senso, chissà, la famiglia sarebbe stata contenta, trattandosi di uno di quei tagli che sarebbero durati.
Mi tirarono giù il lenzuolo che verosimilmente dovevo essere uno scempio, e quando il titolare me lo rimise per tentare di riparare i danni, almeno i più vistosi, sentii che diceva a qualcuno, alludendo alla spazzola, pûar frut, al à di fâsi, no si pol pretindi, bisugne vé pasiense.
Capito? Bisognava avere pazienza, aspettare che il frut si facesse, che crescesse, che imparasse, púar frut, che si istruisse macellando le teste che gli capitavano a giro, e magari anche la nostra, bisognava avere pazienza, e intanto imperversavano. Ora non so se questo di via Pelliccerie era parente di quello che più tardi il destino mi metterà di traverso sulla via di Campoformido, un altro dell’Associazione Carnefici d’Italia, non so, so soltanto che nel modo di tagliare, e zac e zac e zac, gli assomigliava come una goccia d’acqua e come tale fui costretto a subirne il gemellaggio.
A Campoformido. Un povero aviatore martirizzato. Dolori. Aviatore da poche ore, ero nel branco che pascolava sul piazzaletto dell’aeroporto. Avevo i pensieri. A Udine mi avevano detto che se ero furbo ce l’avrei fatta, ti lasci un dito ed eviti la rapatura a zero. Si accontentano. Detto fatto avevo un dito. Mi coprii con un baschetto e mi inserii fra i meloni. All’improvviso adunata. Un caporale fa l’appello, un sergente assiste. Tutt’a un tratto un urlo. Un momento, alt. Tu giù il basco. Mi scoprii, mi fecero salire sopra un baule, schierarono un quadrato di aviatori come me, attenti, riposo, attenti, e chiamato il barbiere che si vedeva benissimo che era felicíssimo di fare il boia, gli ordinarono la rapatura a zero, mentre il sergente, ricevute le congratulazioni dal caporale, continuava a urlare gongolando mi volevi fare fesso eh.
É stato l’ultimo martirio, poi venne il castigamatti, e come la gatta che va al lardo e prima o dopo finisce per lasciarci lo zampino, altrettanto i barbieri finirono per lasciarci il loro. Fu il riscatto dai soprusi, la redenzione dopo la schiavitù, l’inizio di un’era migliore, la resurrezione
Siamo nel 1910 e proprio ora stanno demolendo il cosiddetto Palazzo degli Uffici che verrà sostituito, a stretto giro di piccone, da un nuovo Municipio. È l’anno in cui, e intanto arriviamo al successivo 1911, l’architetto D’Aronco darà inizio ai lavori, a causa dei quali avrà una vita dífficile e piena di amarezze. Il povero palazzo, di mano in mano che viene su, è al centro di polemiche a non finire. Molto discusso al Consiglio comunale e contrastato da gran parte dell’opinione pubblica, stenta a crescere, ci si mette anche la guerra, si sospende frequentemente e si riprende, con fatica e tante difficoltà.
Ma se i mattoni e le pietre stentano a sovrapporsi, le proteste scritte e verbali, molte delle quali elevate da gente ignorante e pettegola, sembrano moltiplicarsi. Di questi strali, taluni con le punte avvelenate, l’architetto D’Aronco è il principale bersaglio. Che fare? Controbattere? Scendere a discutere con il popolino? Ma neanche per idea. Uomo di spirito, come realmente ha fama di essere, vuole prendersi una lapidaria benché allegra e divertente rivincita e la vittima sarà proprio il barbiere che ha il salone al pianoterra del Palazzo Billia, nella stessa via Rialto che fiancheggia il palazzo in costruzione.
Simpatica figura di popolano, ciarliero e spiritoso, a proposito del palazzo che gli sta crescendo sotto il naso, il barbiere ne dice di cotte e di crude. Non c’è cliente che non abbia raccolto, volente o nolente, le sue lamentele, né avventore di passaggio che, non sia al corrente di quanto pensa in proposito. Non ha risparmiato nessuno, nemmeno l’architetto progettista e direttore dei lavori, il quale, paziente e sornione, lasciandosi insaponare e ascoltando in silenzio i sermoni dello spregiudicato barbitonsore, già medita la bonaria vendetta.
Fu così, che ad armature abbattute, al centro dell’arcata dirimpettaia alla barbieria, apparve ai cittadini, scherzoso rimprovero alla cieca ignoranza, un mascherone con le orecchie d’asino e gli occhi bendati.
Era il ritratto del barbiere.