Come a Villa Rosa si proibì l’amore

di Renzo Valente

Anni fa, mettiamo una decina e non dovremmo sbagliare di tanto, la televisione nazionale ha presentato, inserendoli nella rubrica “Cinema nascosto”, alcuni brani di film realizzati in Friuli da Guido Galanti che nel 1934, affiancato dai concittadini Renato Spinotti e Francesco Pelizzo, fondò a Udine, in tempi di esperienze pionieristiche, uno dei primi Cine Club d’Italia.
L’avvenimento compie dunque sessantadue anni uno sull’altro e quel 1934 che abbiamo richiamato dai grandi silenzi dell’oblio, merita di essere sbandierato pubblicamente e ricordato agli immemori, e speriamo stavolta con profitto, ai quali, come contorno, riferiremo pure qualche altra notizia che potrebbe servire a rinfrescare quanto in proposito da essi appreso e poi dimenticato.
Eravamo agli inizi di una eroica produzione cinematografica dalla quale, via via, usciranno film da lasciare a bocca aperta. Il lungometraggio “Giornate di sole”, girato a Lignano su soggetto e per la regìa dello stesso Guido Galanti, proiettato successivamente anche al “Savoia” di Udine, che ebbe il Primo Premio, fuori concorso, al Festival di Venezia nel 1935, e poi, nel ’37, un altro lungometraggio, “A Villa Rosa è proibito l’amore”, girato a Tarcento e premiato al Festival di Como, e poi ancora, nel ’38, il terzo lungometraggio, “Controvento”, girato a Campoformido, Primo Premio, categoria speciale, al Festival di Venezia, e quindi, fra il ’44 e il ’45, “Il piccolo spazzacamino”, “La bambola d’oro”, “Rosellina” e “Saltapicchio cacciatore” senza contare, benché anche questi meritino la considerazione degli storici, alcuni documentari fa i quali un intervento di chirurgia, plastica all’ospedale di Udine, la cerimonia inaugurale del Tennis Club “Carlo de Braida”, un concorso ippico e una sfilata di carrozze d’epoca al Moretti, e la famosa gara ciclistica, si fa per dire, fra giornalisti friulani da Latisana a Lignano, che pare una comica che neanche Ridolini avrebbe fatto ridere tanto.

Da non credere. Abbiamo tutte queste glorie alle spalle e neanche ci scomponiamo. Siamo i soliti friulani. Fondiamo, inventiamo, scopriamo, lavoriamo come bestie e quasi ci vergogniamo. Non andiamo a raccontarlo a nessuno, ci accontentiamo di avere a posto la coscienza, di essere in pace con noi stessi, di fare il nostro dovere. Non ci hanno mandato quaggiù per questo? E allora che cosa vogliamo di più? Se si può dare una mano, anche se gli altri per vederci lavorare stanno volentieri senza fare niente, perché no?, diamoci da fare, mettiamoci pure a sudare, però che resti in famiglia.
I friulani lavorano ma non vogliono farlo sapere. Fossimo napoletani, con tutto quel po’ po’ che abbiamo fatto, e scusate tanto se ci siamo anche permessi di fondare a Udine un Cine Club quando altri, in altre parti d’Italia, nemmeno se lo sognavano, e abbiamo girato film che suppergiù eravamo quasi all’epoca dei fratelli Lumière, a quest’ora salterebbe il Vesuvio.
Invece Guido Galanti, almeno fintantoché è rimasto quaggiù, non faceva saltare niente. Gli andavano a tirar fuori i film che aveva girato cinquant’anni prima, glieli riciclavano, lo applaudivano, lo esaltavano, gli riconoscevano meriti da eroe, lo portavano quasi in trionfo, e lui, da buon friulano iscritto alla Filologica, se ne vergognava. Ma che cosa si sono pensati, diceva, ne valeva la pena? Non era il caso, sono filmini che non dicono niente, li facevamo per divertirci, per passare il tempo, non occorreva proprio che si disturbassero.
Non si rendeva conto, o per lo meno non voleva ammetterlo, che negli anni in cui li produceva, con quelle macchinette di cartone che aveva, con quelle manovelle da grammofono che girava, con i salti mortali che doveva fare per mettere insieme i quattro gatti di piazza Vittorio che gentilmente si prestavano, con quel poco o niente che passava il convento, e lo chiamavano contributo mentre invece era un’elemosina, i suoi film sono miracoli. Gli dispiaceva? Gli dispiaceva. Per me, diceva, era meglio continuare a tacere. Siamo mezzi andati e gli altri mezzi sono rimbambiti. Se qualcuno, comunque e nonostante, si è riconosciuto, chissà mai che effetto gli avrà fatto rivedersi dopo cinquant’anni. Possibile? Ma quelli siamo proprio noi? Avrà sghignazzato, se ne sarà compiaciuto, forse un poco anche illuso di non essere cambiato di tanto. Dopotutto non c’è molta differenza, basta saper guardare.

Che bella gioventù che siamo, che eravamo. Ricorda Villa Rosa come fosse adesso, i quattro innamorati, la zia che contrastava l’infelice amore, le acrobazie dei giovani per evitarla, per eluderne la spietata vigilanza, per dargliela ad intendere, quel muretto, quel terrazzino, quella siepe, la stradina, la salitella, il cancelletto, ma sì, come fosse adesso, ci riconosciamo come fosse adesso. Non era la Villa Moretti di Tarcento, non erano le due Bassega, la Pintor, l’Aloisio, la Verzegnassi, e poi gli spasimanti, guarda che carini che siamo, che eravamo, Guido Galanti, Ezio Tomada, Pierino e Carletto Chiussi, quel modo di vestire, di muoversi, di parlare, di lucidarsi i capelli alla Rodolfo Valentino, non eravamo carini?
Ma guarda, hai portato anche le fotografie? Dà qua, dà qua. Fai vedere, abbi pazienza, fai vedere. Ma guarda chi c’è qua. C’è Icio Sanvilli che faceva l’operatore, ti ricordi?, ci sono i due Chiussi, e c’è Ezio Tomada, ma guarda, e questo qua non è Giancarlo Zanuttini, che era il nostro direttore di produzione, ma sì che è lui, ti ricordi?, lo ricordi?, è proprio lui, e poi, lascia che veda bene, ci sono le nostre ragazze, guardale che belle che sono, la Bassèga, la Tosca Pìntor, la Wanda Verzegnassi, la Lia Aloisio, uno splendore. Le riconosci? Non sono da mangiare? Meriterebbero, lo meriterebbero davvero. Ma che fai? Un momento. Fermi tutti. E in quell’altro pacchetto che hai lì, chi siamo? Fa vedere, fa vedere. Non c’entriamo? Sono di un’altra parrocchia? Non fa niente. Fa vedere lo stesso. Dà qua. Vediamo.
Ah ben, starei giornate intere a guardare. Lasciami guardare ancora. Guarda anche tu. E questo qua non è Vittorino Frittaiòn, e questo non è Carlo Carrara, e questo non è Luciano Occhialini, e questo non è Filiberto Diana, lo storico galoppino del Guf di via Carducci e qui portaborse del regista, silenzio, ciac, si gira? Ah ben. E queste due non sono la Thea d’Aristène e Claudia Ravasi? Ma sì che sono loro. Un capolavoro di ragazze. Le ricordi? Uno spettacolo. I grandi occhi neri della Thea e quelli chiari della Ravasi, biondina, piccolina, minutina, magrolina, eccole qua. E poi? Fa vedere. Lasciami vedere. Che bella gente. E questo non è Renzo Valente? Ma sì che è lui, guarda qua, è Renzo Valente. È Renzo Valente? Allora alt. Bella gente? Come non detto.