di Renzo Valente
A proposito della piazza immemore che qualche settimana fa, su questo stesso angolo di giornale, è stata commemorata insieme all’ombra di Tita Bassi, il commilitone della Vecchia Guardia Guido Furlanetto, classe 1916, che in aggiunta agli impegni da assolvere in caserma, comunque e nonostante, continua a vendere stoffe in via Cavour 17, mi rimprovera e chiede come mai.
Dice come mai, ma come mai che cosa? Dice come mai mi sia occupato di quello e non di questo. Come mai? Non precisa, non chiarisce, non nomina. Come mai, soltanto come mai. Non ci sono. Si facesse capire, approfondisse, esponesse.
Me lo spiegherà più tardi, con calma, con ordine, con metodo, dettagliando, specificando, circostanziando e alla fine assicurando che intendeva riferirsi a ciò che della nostra piazza, volutamente o per vuoto di memoria, ho ignorato.
I nasi del Dorta andavano bene, i passeggi pure e anche le divine del cielo e quelle della terra, come no, anche le Quindicine andavano bene, come no, anche i romanzi, il dentista, il notaio, i ricambi, il Sale e Tabacchi, il barbiere, i giornali, la farmacia, la profumeria, il cine e i caffè, tutto ciò andava bene, non andava bene invece quello che mancava.
E non era poco come pensi tu. Non era poco. Era poco, secondo te, il tamburo a strisce bianche e rosse che ogni mattina, facendolo rotolare sul selciato di mezza piazza, mettevano dalle parti del Bar Vittorio, ritirandolo poi la sera appena sceso il Vigile che da lassù aveva regolato il traffico, non c’è niente da ridere, era traffico anche quello, e che noi chiamavamo il Vigile del Tamburo? E poiché siamo sui Vigili, era poco, secondo te, ciò che regalavano ai Vigili gli automobilisti, confidando ovviamente in qualche eventuale sconto, addirittura in un abbuono, nella ricorrenza dell’Epifania, la Befana del Vigile, si diceva, e in quel giorno, per evitare malintesi, le mogli dei Vigili rimanevàno a casa, non si sa mai, panettoni, spumanti, galline, perfino agnellini pasquali. E sarebbe poco, secondo te, la Festa dell’Uva in piazza, la Battaglia del Grano in piazza, le pecore in piazza da vincere alla Pesca di Beneficenza, la fila dei chiodoni in piazza che il Comune, bontà sua, credendo che fossimo in asilo, ci avevano messo sull’orlo dei marciapiedi per non farci sconfinare? E secondo te, anche se non si vedeva però si sentiva, era poco la cioccolata del Corazza, la più buona cioccolata del mondo e qualche volta anche la più maliziosa, come quella che ti sei rovesciata addosso e poi a casa hanno creduto che ti fosse venuta la mossa? Perché non l’hai raccontata? E perché non informare i posteri, almeno informarli se non eri in grado di erudirli, che la domenica mattina, trombe e tamburi, passavano di lì marciando gli Avanguardisti di Fortunati, i Marinaretti di Apicella, le Giovani Italiane della Corradi, che avevano i senucci già minacciosi, figurati se non li avevi notati, protesi spavaldamente in avanti un po’ per necessità atletiche e un po’ di più per civetteria?
E come mai non hai detto niente della piazza in abito da sera, illuminata com’era dai caffè, dalle vetrine, dai negozi e piena ancora di gente che entrava e che usciva, il cappuccino, le sigarette, la barba, i giornali, l’aspirina, il profumo, un film di De Sica o di Besozzi, un andirivieni di gente per bene che non aveva premura di ritornare a casa, che vi ritornava quando voleva, sola o in compagnia, anche a piedi, anche alle dieci, anche a mezzanotte, anche in periferia, e con il portafoglio intero?
Non ne hai parlato, le distanze sono state mantenute, neanche una parola. Secondo te non ne valeva la pena, erano spiccioli, si potevano ignorare. Poveri noi in che stati che siamo ridotti, non conosciamo più nemmeno il valore dei soldi.
Aveva ragione, sono una bestia, avrei dovuto, meritavano, e gli tesi la mano. Cosa vuoi, gli dissi, siamo di male, abbiamo preso una brutta piega. Si tiene, conto soltanto di chi dà di più e si trascura chi dà di meno, come se i poveri non potessero dare di più di quello che danno i ricchi, hai ragione, hai fatto bene a rivendicare ciò che è stato dimenticato e a sgridarmi. Dovessi riprendere non lo farei più.
Ci abbracciammo e ritornammo in piazza. Solito. Qui c’era e adesso non c’è più, lì non c’era e adesso c’è. Una lagna. Ciononostante, più per abitudine che per la voglia di riaprire le ferite, demmo un’occhiata all’Upim e sentimmo un’altra volta, come se non le avessimo mai sentite, le martellate che avevano sbriciolato l’Eden.
Povero Eden, la crestina, i balconi, le loggette. Qui si entrava, là si usciva. E lassù c’era la loggetta, e neanche di questa hai parlato, da cui scendevano a cascate, allagando la piazza, le musiche dei film che la sera avrebbero proiettato nell’interno, la Marsigliese della Giovanna d’Arco, gli acuti di Lugo, vento vento portami via con te, della Canzone al Vento, i gorgheggi di Martha Heggert degli Angeli senza Paradiso. Era come un invito, sentite che musica, venite a vedere il film, c’è da guardare e c’è da ascoltare, venite, vi divertirete.
Qualche volta il senso dei verbi. Uno dice vieni che ti divertirai, ti fa vedere una comica e ti diverti, un altro ti dice vieni che ti divertirai e ti fa vedere Schubert che piange, Martha Heggert che piange, l’Incompiuta che piange, e ti dico io che divertimento.
Pertanto, messo in questo modo, era un cine che piangeva e chi vi andava, credendo di divertirsi come gli era stato promesso, finiva invece per piangere anche lui. Unica cosa utile che, usciva da, quei piagnistei era quella di farci capire che Schubert voleva comporre una sinfonia intera mentre invece aveva dovuto interromperla. Era importante saperlo, c’è sempre qualcuno che chiede come mai, nel qual caso abbiamo la possibilità di citare gli Angeli senza Paradiso e fare la nostra bella figura.
Comunque il fatto andava segnalato, ne convenni, lo ammisi; condivisi, mi dispiace, dovevo, lascia stare, acqua passata, eravamo ritornati al buon umore. Alzammo gli occhi sulla loggetta e ci mettemmo a ridere. Che giornate. Ci si svegliava con l’Incompiuta, si mangiava con l’Incompiuta, si andava a dormire con l’Incompiuta, ti-ru, ti-ru, ti-ru, la penitenza di uno che ne ha fatte di tutti i colori.
Una sera di quei giorni ne abbiamo combinata una da vergognarci. La racconto? Raccontala. Mi vergogno ma la racconto. L’Eden pareva una sagra. La loggetta mandava giù a ripetizione la solita Incompiuta, acuti e gorgheggi che rompevano i timpani e a qualcuno anche qualche cosa altro. Ti-ru, ti-ni, ti-ru, e avanti.
Era una sera vedo non ti vedo, luci e ombre; più ombre che luci, penombre, chiaroscuri, sfumature. Ci affacciamo sul parapetto della doppia scaletta della Loggia che è di fronte alla farmacia e con noi c’è’ Martha Heggert in persona, i bei capelli biondi, le labbra di pomodoro, le guance di prugna. Qualcuno si muove, si avvicina, passa la parola. I più moni si fermano sotto, applaudono, acclamano, chiedono il gorgheggio. Gor-gheg-gio, gor-gheg-gio, gor-gheg-gio. La Heggert alzò un ditino e fece un ruttino. Era Ezio Vau.