Inviato speciale di là dell’acqua

di Renzo Valente

Dopo tanti anni che non la sentivo, la vocina della coscienza, come la chiamava la mia maestra di San Domenico, prima di addormentarvi fate l’esame di coscienza, ascoltate la sua vocina, si è fatta viva e mi rimprovera.
Ti hanno festeggiato, dice, sei stato portato al settimo cielo, è mancato poco che ti facessero santo, San Renso Vergine, suonerebbe anche bene, da quanto si è capito sembrerebbe che nella tua vita non abbia mai commesso uno sbaglio, non abbia mai messo una virgola fuori di posto; non abbia mai fatto un torto a nessuno, che sei esempio da seguire, insomma che sei venuto in terra a miracolo mostrare, mentre invece io so, e anche tu lo sai ma fai finta di non saperlo, che sei un traditore.
Vergogna. Dovresti vergognarti. Ti hanno sbrodolato addosso tutte queste cose e tu le hai accettate senza battere ciglio.
Il cantore di Udine. Ma fammi il piacere. Uno che canta la propria città canta quella e basta, non canta anche le altre e se le canta è un disonesto.
Si riferisce ai due amori che ho avuto a Pordenone, neanche amori, sbandate. È vero, ha ragione, in due differenti momenti della mia vita, assai lontani fra di loro ed entrambi abbastanza anche da me, a Pordenone, o meglio, con Pordenone, cosa costa a dire la verità, ho avuto due amori, due sbandate. Una dolcissima e l’altra amarissima. Non le ho dimenticate, non è, come dice la vocina della coscienza, che faccia finta di ignorarle, anzi, le ricordo benissimo, soltanto che a me non piace sbandierarle, le tengo per me e non mi sembra peccato grave se non intendo metterle in conto. Non le ho dimenticate, la prima divampò che non avevo dieci anni, la seconda che ne avevo quasi trenta.
Quando questa sbocciò eravamo in guerra e il mio arrivo a Pordenone fu annunciato dal giornale. L’avvocato Ugo E. Imperatori, diceva il comunicato apparso sul Popolo del Friuli domenica 5 dicembre 1943/XXII, dopo tre anni di encomiabile attività svolta con provata esperienza giornalistica, ha lasciato l’incarico di Capo della Redazione pordenonese. A sostituirlo è stato destinato il camerata Renzo Valente, redattore del nostro giornale.
Un neretto in apertura di cronaca seguito da un corsivo di presentazione, sono così e così, con Pordenone ho avuto già a che fare, assaggiatemi, diventeremo amici. Firmato R. V., soltanto R. V. Allora non si riceva come fanno adesso che uno fa una pisciatina e ci mette sotto macché la sigla, che sarebbe già troppo, ma addirittura nome e cognome, che è troppissimo, e se non lo tengono vi aggiungerebbe anche quello del padre e quello della madre. Sarebbe bella.
La casalinga Maria Sporeni, abitante in vicolo Brovedan 8, scendendo le scale di casa, è caduta e si rotto un femore. Guarirà in quaranta giorni, se le va bene. Firmato Renzo Valente, figlio di Eraclea, vedova del fu Livio,
abitante in via del Monte 6, quarto piano, si associa il gatto. Fosse adesso mi adeguerei, e farei pure una bella figura, ma allora neanche ce lo sognavamo, mesi e mesi di esercizi a cominciare dalle aste per finire nei gerundi e nei congiuntivi, e poi, se sarai buono e bravo vedremo, intanto impàrati il vocabolario a memoria. Pazienza. Ogni, tempo ha le sue firme e i femori non sono tutti uguali.
Venivo da Udine la mattina e ritornavo a Udine la sera. Andata e ritorno tre volte la settimana. Avevo l’abbonamento, ero ormai di casa, e a me, figlio di un ferroviere, cioè uno che se ne intendeva, quel povero treno mi faceva una pena infinita. Passava sul ponte di Casarsa che pareva un topolino ossessionato dalla paura di incontrare i gatti che nel suo caso non erano gatti bensì aeroplani che ormai da tempo, instancabili aguzzini, non gli davano requie.
Ma bene o male, apparentemente impassibile come un vecchio patriarca, che in punto di morte chiama a sé la famiglia ed è lui a dare coraggio agli altri non viceversa, arrivava all’opposto capolinea sano e salvo; fumando, fischiando e sferragliando di gusto e di soddisfazione, sono qua, anche per oggi ce l’ho fatta, e trasmettendo la sua allegria a quanti, schierati per applaudirlo, trovava sul suo cammino.
Pordenone allora, penitente senza peccati, stava consumando anch’essa la sua parte di esistenza provvisoria e lo faceva con il sorriso sulle labbra riuscendo a nascondere le tribolazioni dell’anima, il volto e l’anima, uno radioso e l’altra dolente.
Per questo, per questo suo modo di essere e dì sopportare, amai Pordenone. Mi conquistò, mi intenerì e mi innamorai. Fu il secondo amore a Pordenone, con Pordenone, ed era un amore malato, il primo invece aveva anche, lui la febbre ma senza essere malato. Una febbre sana. Ed ero ancora un bambino quando fiorì, si accese e mi incendiò. Altro che l’oro in bocca avevano quei mattini sui prati del Noncello, io dico diamanti. Vestivo alla marinara, appartenevo. a una Marina senza mare e senza navi, era una Marina quasi celeste e io vi facevo l’angelo; una Marina che non rinnegherei mai, anzi, se potessi, fosse ancora possibile e mi chiamasse andrei di corsa a servire, si fa per dire, rimanendovi vita natural durante.
Cari anni di quel mio Noncello, pieno di salici, di acacie e di betulle nelle ore in cui la terra arrostiva al sole e le lucertole mi scappavano da sotto i sandali, con i rondoni che mi piombavano intorno a volo radente, con l’usignolo che si sgolava negli ontani, con le nuvole che venivano a passeggiare sull’acqua oscurando per un attimo le mie mani protese a catturare i girini, se te ghê mêti un gran de sal su la coda facile che te li ciâpi, che entravano nella gabbia delle dita intrecciate e ne uscivano guizzando e forse anche ridendo, contenti come pasque per la beffa tramata ai miei danni. Non li prendevo, il sale probabilmente era scadente, ma che importava? Il paradiso era fatto anche di questo, come era fatto dalle buone merende da spartire nei boschetti con le formiche, dalla marmellata da contendere alle api che calavano in picchiata a prendersi la loro parte, dai salti, dalle corse, dalle capriole, dalle belle sudate e dalla fame che covava e che di lì a poco si sarebbe abbondantemente manifestata a casa, vârda questo putêl qua in che stati ch’el se gâ ridoto, finîo de magnâr march in lêto, una dormita di quattordici ore di fila senza nemmeno muovere un mignolo, così se lo mete la sera così se lo trova la matina, e stentando anche a svegliarsi alla tirata di piedi del giorno dopo, su mo, su mo, gnânche ch’el gavêssi el mal de la nôna, beata età.
Beata età davvero. Si passano le giornate con le lucertole, si mette il sale sulla coda dei girini, si divide la merenda con le formiche, si contende la marmellata alle api, si ascoltano gli usignoli, si schivano i rondoni, e la sera si va in catalessi per quattordici ore di seguito, si dimentica il mondo, si è come morti, non si vede niente, non si sente niente e una volta tanto, beata età, nemmeno la vocina della coscienza, Dio liberi, che brontola, che rimprovera, che non ammette sbandate, e a chi le fa dà anche del traditore. Beata età davvero.