La Stampetta

di Renzo Valente

Zelante e precisa, attenta a cogliere ogni aspetto delle stagioni e pronta a rilevarne i rispettivi significati, i fiori in primavera, il verde in estate, i frutti in autunno, la neve in inverno, l’Amministrazione comunale di Udine alle prime avvisaglie del caldo, avverte i cittadini che la piscina olimpionica e quella dei bambini, ricavate entrambe dal Palamostre di piazzale Paolo Diacono, sarebbero state aperte al pubblico. Dà gli orari, mattina dalle alle, pomeriggio dalle alle, all’alba di ogni giorno pulizie e cambio dell’acqua, e con ciò l’utente sa regolarsi apprendendo pure che avrebbe nuotato, oppure mandato a nuotare i suoi figlioli, in acque rinnovate, fresche depurate.
L’annuncio appare regolarmente sul giornale e in poche righe fa capire quanto in sostanza intende dire. Non si perde in chiacchiere. Punta all’essenziale e anche ci riesce, ma non scalda, non dà alcuna emozione. Da domani, dice, è aperta la piscina, questi gli orari e tenete presente che cambiamo l’acqua. Punto e basta. Telegrafico. Asciutto. Burocratico. Come avessero detto che la Filologica si sarebbe riunita per discutere sulla koinè. Insomma una informazione senza brividi.
In altri tempi, invece, a quest’ora si sarebbero già visti in città i manifesti e gli striscioni. Era una notizia che si aspettava e quando arrivava venivano le smanie. Tappezzavano i muri delle case, le piazze e le strade ne erano piene, avevano colori chiassosi, pareva che gridassero. È aperta la vasca da nuoto, dicevano gli striscioni, attenetevi a queste norme, raccomandavano i manifesti e benché gli striscioni contassero di più in quanto ci annunciavano l’apertura della vasca, ed era quello che in fondo ci interessava, neanche i manifesti sarebbero stati da trascurare. Non andavano presi sottogamba.
Intanto confermavano i prezzi dell’anno precedente. Nessuna novità. Una cabina con l’uso di mutandine e di un lenzuolo forniti dallo stesso stabilimento, una lira e cinquanta, lo spogliatoio in comune con l’obbligo di servirsi di biancheria propria, quaranta centesimi. Non aumentavano mai, le stangate erano di là da venire, però c’era da osservare i turni. Tre turni la mattina, cinque nel pomeriggio, uno gratis la domenica, e al suono della campanella che pendolava fra le colonnine della loggetta dell’ingresso, bisognava sgomberare subito. Neanche un minuto di più. Uno usciva e l’altro entrava. Ma poi c’erano altre cose da fare e da non fare. Non si poteva presentarsi fuori dagli spogliatoi senza indossare almeno le mutandine, non si doveva oltrepassare la corda dei non nuotatori, tirata a metà vasca, se non si sapeva nuotare, non era consentito lavarsi con il sapone fuori dallo sfioratore, era proibito disturbare il prossimo e bisognava mantenere un contegno tranquillo e corretto evitando soprattutto di chiamare il bagnino se non era necessario.
Ogni anno le stesse regole, le conoscevamo a memoria e il Podestà che firmava il manifesto delle istruzioni e che verosimilmente non aveva bisogno di altri grattacapi oltre a quelli che aveva in municipio, non doveva preoccuparsi. Non dubitasse. Ci saremmo attenuti. Tutt’al più poteva darsi che al suono della campanella non fossimo ancora pronti, non si sa mai, una calza che non si trovava, una scarpa seppellita, le mutande andate a finire chissà dove, la maglietta o la camiciola ancora da indossare, i calzoncini ancora da abbottonare, ma in ogni caso ci avrebbe pensato il bagnino a buttarci fuori lo stesso, sbrigarsi, muoversi, pedalare, urlava, e con una pedata a piede nudo, più che altro simulata, ci faceva galoppare che magari l’ultimo di noi non aveva neanche finito di asciugarsi.
Eravamo nell’età in cui le simpatie, gli affetti e i sentimenti, benché ancora vaghi e immaturi, cominciano a uscire dalle anime confuse e già si definiscono, con discrete ed esitanti rivelazioni, i gusti, le vocazioni, le scelte. Correvano anni epici. Le piazze e le strade brulicavano di divise e ovunque sventolavano i gagliardetti, suonavano le fanfare, tuonavano dai podi e dai balconi e si marciava cantando. Tutto ciò ci piaceva, ci elettrizzava, ci esaltava. Svezzati all’inno del Piave e cresciuti nel trionfale, vivevamo di gloria e di apoteosi accettando con l’eroico anche il retorico quale naturale componente della realtà che per noi, in quel momento, essenzialmente ristretta a quanto i nostri stessi occhi potevano vedere, si incarnava nei mitici protagonisti di imprese e di gesta radiose. Stavamo assistendo a una epopea. Il tricolore garriva al Polo Nord, Agello volava a settecento e passa chilometri all’ora, Balbo faceva le crociere e Nuova York lo copriva di fiori e di coriandoli, il Rex solcava gli oceani e conquistava l’alloro del più veloce, Marconi premeva un bottone a Genova e a Sidney si accendevano duemila lampadine, la Nazionale di calcio, Binda, Guerra e Carnera erano campioni del mondo e mentre D’Annunzio armava la prora e Marinetti scherniva gli ignavi, un destino sfacciatamente favorevole ci metteva sulla porta di casa gli aviatori di Fougier, i più bravi dell’universo.
Bastava e ne avanzava per orientare le coscienze, per collocare i sentimenti, gli affetti, le simpatie, per determinare le scelte, ma anche per renderci conto che a questo punto bisognava fare qualche cosa pure noi. E tanto per cominciare andammo a nuotare. Uno scherzo. Il luogo l’avevamo a portata di mano. Era una vasca ospitale, si chiamava Stampetta e si trovava a Porta Poscolle, fra via Marangoni e viale Duodo, dietro la Casa del Combattente.
Allora non erano ancora di moda le barche e i cabinati, ci si accontentava di molto meno, bastava una camera d’aria di qualche camion in disarmo, sulla quale era bello galleggiare, rimanere immobili in mezzo alla vasca, con la valvola magari che grattava la schiena, ma non importava, e godersi la pace di quel mare casalingo alla cui superficie e negli abissi ne combinavamo di ogni colore, una decina dentro a far confusione, altrettanti fuori ad arrostirsi al sole, seduti, in piedi o sdraiati sul cemento ardente oppure sopra l’erba che pareva dovesse prendere fuoco da un momento all’altro.
Una volta facevamo i sommergibili. Ci tuffavamo da una parte e navigando sott’acqua si usciva dall’altra. Si spariva e si riappariva e strada facendo ci si aggrappava alle gambe di chi incontravamo sul percorso e lo tiravamo giù. Un turno trovammo due gambe che erano come rocce. Tirammo, ma neanche si mossero. Emergemmo. Erano quelle del bagnino. Ci aspettava al varco e trascurando, bontà sua, l’offesa personale, si appellò al regolamento. E’ proibito dare fastidio al prossimo. Si gonfiò i muscoli, ci prese per il collo, ci fece vestire, e ancora bagnati, a spinte, a salti, a capriole, fuori uno, fuori due, fuori tre, proprio alla maniera dei sommergibilisti, ci mise alla porta.