Quando in piazza coltivavano l’uva

di Renzo Valente

Ecco che cosa càpita a uno che nell’interesse suo e della comunità, comunque e nonostante, cerca di riportare la propria città a quel livello di civiltà che aveva, che le compete e che, oggi come oggi, con l’avvicendamento degli inquilini e l’imperversare degli iconoclasti, sembra avere perduto.
Incredibile. Non sono passate che due settimane da quella in cui il commilitone Guido Furlanetto, a proposito della commemorazione della piazza immemore, aveva lamentato la mancanza di alcuni elementi ritenuti arbitrariamente insignificanti che un’altra della Vecchia Guardia, la cómmilitona Fedora Filippi, via Santa Caterina, 20, si duole di non essere, stata interpellata. Come mai? Come mai anche lei. Se mi avessi chiesto, se venivi da me, se ci tenevi ad essere uno storico serio.
È il secondo attacco che subisco da quando mi occupo della piazza, e questo, di Fedora è press’a poco di quello dì Guido. Anche lei ha il suo errata corrige. Intanto, dice, ci avrei tenuto ad essere nell’elenco dei nasi del Dorta anche se il mio non è competitivo, non mi ci hai messo e pazienza, in secondo luogo c’erano altre cose e altre persone che nella prima stesura non sono state accreditate e che nella successiva nemmeno Furlanetto le ha rilevate.
Non so, prendi per esempio il professor Calligaris, ma sì, quello che indovinava il pensiero altrui, la trasmissione del pensiero si diceva, e che veniva la sera a prendere il fresco in piazza sedendosi con noi sul muretto, quando già si sapeva che in tram una procace signora aveva preso a schiaffi un baldo giovanotto che la guardava imbambolato, così impara a farsi venire questi pensieri, non so, prendi Pollione Magrini, ma sì, quel Pollione Magrini di vicolo Pùlesi, poliglotta e suonatore di fagotto, che veniva in piazza a declamare le poesie del Giusti e a dichiarare sdegnato e schifato che l’ingrata patria non avrebbe mai avuto le sue ossa, non so, prendi i pennoni mobili delle bandiere che piantavano sul terrapieno per farle sventolare il 24 maggio e il 4 novembre al sottostante mormorio del Piave, non so, non so, non so, prendi insomma quello che non hai preso, fa un po’ i conti, considera, confronta, e poi dimmi se ne valeva la pena e se meritavano di essere lasciati fuori.
Ma ce ne sono ancora e ce ne sarebbero. Non so, prendi l’albo lucidato a cera che appendevano al Cotterli il sabato sera con le fotografie dei giocatori dell’Udinese che avrebbero giocato la domenica dopo, Cassetti, Bellotto e Cantarutti, Gerace, Bonino e Zilli, Modotti, Fornarola, Miconi, Vittorio e Bartesaghi, la formazione disposta a piramide rovesciata, senza libero e senza difensore di fascia, non so, prendi anche le fotografie di Silvio Maria Bujàtti esposte sulle colonne del Dorta, le nuvole vaganti sul Cormor, il lago increspato di Fusine, i ritratti del conte Manin, di Afro, di Carletto Serafini; e, quella signora nuda distesa sul sofà che secondo il fotógrafo mandava riflessi ed era vero, e sapevamo noi che riflessi che ci mandava e da dove venivano.
Non ne hai parlato, non hai detto niente, niente, né di questo né di quello. Niente. Neanche i riflessi sono usciti a farti concentrare, mortî anche quelli, e non venire più a dirci che sei il cantore di Udine, che canti qua, che canti là, nemmeno fossi un usignolo, ma fammi il piacere, un cantore con la coscienza a posto, anche se è un usignolo, non canta soltanto ciò che gli fa comodo e scarta il resto che comodo non gli fa. Guarda Renso, non offenderti, non prendertela, non avertela a male, ma secondo me ha ragione Guido a protestare per quanto gli hai tolto, ho ragione anch’io a lamentarmi per quanto hai tolto a me, come pure hai ragione tu a darti della bestia. Noi non arriviamo a tanto ma se insisti possiamo anche metterci d’accordo.
Me ne ha dette più di Guido, non avrei mai creduto una commilitona come lei, e adesso che hai l’occasione, se vuoi, puoi riparare, buona notte.
Eravamo alla buona notte, presi l’occasione per il collo, ne approfittai, li accontentai, ma mi avevano stufato. Una volta si avrebbe detto mi fanno un baffo e che andassero a remengo. Avevamo altre cose da occuparci, da starci dietro, da amministrare, i passeggi, le divine, le Quindicine, le ballerine del Cecchini, Stanlio e Ollio al Moderno, Baseggio e Micheluzzi al Puccini, De Sica e Besozzi all’Eden, dovevamo controllare il tram e le carrozze, il terrapieno e i marciapiedi, chiodoni compresi, tenere d’occhio il Cotterli, il Corazza, il Vittorio, l’Eden, il Contarena, il Dorta, sorvegliare i Vigili del Tamburo, gli avanguardisti di Fortunati, i Marinaretti di Apicella, le Giovani Italiane della Corradi, assistere ai concerti della Banda Cittadina di Mascagni, della Presidiada di Prenna, della Fanfara di Bujatti, un lavorone, un lavorone, un lavorone, bisognava provare, altro che perdersi dietro gli spiccioli.
E l’Odeon? Non avevamo anche l’Odeon da sentire e da vedere? Si andava, si seguiva, si cercava di imparare, si imparava, si canticchiava. Però non più l’abat-jour tu che spandi la luce blu e tanto meno il ciondolo d’or che è pronto piccina per te; prodotti ormai superati che tuttavia resistevano comunque ma con sospiri sempre più lievi e verosimilmente prossimi ad esaurirsi sulle labbra di qualche ultima Francesca Bertini ancora aggrappata alle tende, ma stavolta per non cadere, sibbene le mille lire al mese, il violino zigano e quell’addormentarmi così fra le tue braccia che è stata un poco la canzone scostumata di quegli anni.
Ce la stavano insegnando le Compagnie del Varietà che all’Odeon erano di casa, la Vanni e Romigioli, la Billi e Riva, Nuto Navarrini, Carlo Dapporto, per ricordarne appena alcune, e quel Mario Latilla che portò a Udine, proprio all’Odeon, la storica notte senza luna, cuore senza amore, Madonnina bruna più non pensi a me. Da fermare il sangue nelle vene.
Vivevamo gli anni delle lune. Ne mandavano fuori a bizzeffe, l’algerina, la bugiarda, la malinconica, la marinara, bastava guardarsi intorno, le trovavamo ovunque, Venezia la luna e tu, non posso cantare alla luna, l’amore sotto la luna, ti baciavo sotto la luna, un po’ di luna, il valzer del quarto di luna, e meno male che questo qua si accontentava solo di un quarto.
Parevano saldi di stagione di tante che erano, montagne di rimanenze in liquidazione, ce n’era per tutti, eppure anche noi, fuori quota, ne avevamo una privata, da consumarsi in proprio, ed era quella che veniva in piazza a passeggiare sulla testa dell’angelo. Ci teneva compagnia, faceva parte della famiglia, le eravamo affezionati.
E quando mi accorsi che da me, da noi, di mano in mano che passavano gli anni, stava andando tanto lontano che se avessi aspettato ancora un poco non l’avrei raggiunta più, me ne sono tenuto un pezzetto nel cuore, e non mi offendo, né mi vergogno, se qualcuno viene a canzonarmi, a prendermi in giro, a chiedermi che cosa ne faccia del mio chiaro di luna.
Lo capisco. Vorrebbe avvertirmi, bontà sua, che in questi tempi non c’è più posto per la poesia, ma è fuori strada. Si calmi, si tranquillizzi, non si preoccupi. A me serve soltanto per vedere dove metto i piedi.