Quando si giocava a ticca e spanna

di Renzo Valente

È accaduto qualche anno fa che uno mi scrivesse una lettera e contemporaneamente la facesse pubblicare sul giornale nella quale trattava un argomento che potrebbe ancora interessare chi di queste cose se ne intende.
Si riferiva al vicoletto di San Bartolomio che in fondo a via Manin, accanto alla Torre, si stacca dalla stessa per raggiungere, dopo una leggera salitella, un cortiletto chiuso da una cerniera di case allora disabitate. Caro Signor Valente, diceva la lettera, mi ha fatto molta tristezza vedere che nel tipico vicoletto disabitato e buio che sbocca su Porta Manin e pertanto in pieno Centro Cittadino, apochi passi dalla piazza-madre e a pochissimi dalle dimore del Sindaco, dell’Arcivescovo e purtroppo per lei anche dalla sua, vi sono decine di siringhe compiacenti e in libertà. Scrivo a lei che scrive per sapere se può fare qualche cosa e per sentire come mai non l’abbia già fatto. Con molta stima. Dario Pascoli.
Quanto raccontava il signor Pascoli, il geometra Pascoli, che è una brava persona e che come tale anch’io stimo, doveva essere vero. Non c’era da dubitarne. Non si sarebbe lamentato se i fatti denunciati non avessero corrisposto alla realtà e perciò bisognava credergli, tanto più che a conferma di quanto stava dicendo è apparsa successivamente sul medesimo giornale, su questo giornale, una seconda segnalazione accompagnata stavolta da una fotografia abbastanza eloquente, abbastanza deprimente, abbastanza penosa, che ritraeva decine di siringhe disseminate sull’acciottolato di quel cortiletto, appunto, di cui il Pascoli si era occupato.
Ne presi atto e convenni con il Pascoli e con l’estensore dell’altra nota che ciò che essi avevano rilevato e documentato era piuttosto preoccupante, però ho dovuto anche respingere le responsabilità che mi addebitavano e che in coscienza non mi sentivo assolutamente di assumere. Erano fuori dei seminati. Fantasie. Come si può pretendere che uno, soltanto perché abita in quei paraggi, debba rispondere delle siringhe altrui e addirittura, come qualcuno andava insinuando, anche degli sprechi che si facevano usandole una volta sola e non più di una?’ Ma scherziamo? Che cosa si erano messi in testa, chi l’aveva detto, dove stava scritto che avessi dovuto farlo io?
Attenzione dunque, riflettessero, avessero pazienza, stessero calmi, non pensassero di incastrarmi credendo di abbagliarmi con i nomi del Sindaco e dell’Arcivescovo associati al mio. Ce ne voleva. Non si illudessero. Neanche se avessero tirato in ballo il Prefetto, il Presidente della Provincia quello della Filologica, che anche loro, come me, abitavano in quei pressi, sarebbero riusciti a confondermi. Anzi, al punto in cui eravamo era meglio prendere le distanze. Ognuno doveva badare ai fatti suoi. Il Sindaco e l’Arcivescovo si giustificassero come volevano, facessero quello che credevano, si arrangiassero, per quanto invece mi riguardava, sia pure ammettendo di abitare nel giro del cortiletto incriminato, era da tener presente che nelle ore in cui presumibilmente avveniva lo sperpero modestamente dormivo mentre invece, l’avessero compiuto di giorno, avrebbero dovuto sapere che di giorno non sono mai da quelle parti e che se mi trovavo altrove erano affari miei.
Punto e basta.
Come cambiano i tempi del resto e quanto in peggio. Una volta le siringhe usate non si scartavano, si conservavano. Le facevano bollire, se ne servivano e poi le riponevano in attesa di nuove prestazioni. Duravano una vita. Veniva la levatrice che in mancanza di puerpere faceva anche l’infermiera, bondì bondì, la se cômodi siôra Olga, bondì bondì siôre, se mût vâe, e si stava subito meglio.
El gâ ancora un poca de fêbre ma no me pâr mal, la se cômodi siôra Olga. Anciemò fiêre? Dîsie par dabòn? Ma ciâle tu se rasse di spacâde puar frut, ma dulà le âe ciapàde? A ticca e spanna siôra Olga, a balête siôra Olga, figurârse, quêla maledêta stradassa, quêle maledête balête che ghê le buterîa ne la rôja tanto volentieri, fredo, vento, polvere, nol capisse gnênte, el fa quel ch’el vol. La se cômodi siôra Olga. Si accomodava, toglieva dalla borsa l’astuccio di alluminio, lo metteva a bollire sulla spiritiera e si sedeva. O Dio, diceva, o sôi tant stràche e tant strâche che no vês l’idee. Une in Ciavrîs, une in Bordoleet, un’altre in Puscuêl, al è dut il dì co côr, co pedâli. Bisugne provà. No sint plui nânce lis gjambis, o ai di vè i piis come dôs polpêtis.
Faceva pena e aveva la comprensione di tutta la famiglia. Bêvela un bicierìn siôra Olga? Oh che lassi, che lassi siôre, in chêi stâs co soi o vôi âncie a ris’cio che mi vâdi a tor il ciâf, che lassi siôre. Un dito solo siôra Olga, no ghê farà mal, ansi. Oh s’al è par chel, cun che strapassâde co mi sôi fate, no l’è perîcul. Va ben, va ben siôre, alôre dome un deet, ma propri un. D’acordo siôra Olga, la me dîsi êla quanto. Baste baste, alt. Vonde cussì. A la vuestre. E a propôsit vêso savut de Gaudio? Puare diâule, e sa di vê patiit che ve. E pasiense par jè che ormai no sint plui nuje, bisugne viôdi il so omp. Al è come un pessòt, al fâs tant di chel dûl che no si sa nânce se dì.

E intanto che chiacchieravano in cucina, in camera si sudava e si andava in delirio. Avevamo i gatti che pesavano sui piedi e pareva anche di essere in gondola. O Dio mâma, mândeme via i gâti che i me pesa sui pîe, o Dio mâma, fêrmeme el lêto che no vôio andâr in gondola. E i gatti andavano via e il mio letto si fermava soltanto quando i morti in cucina trovavano la pace e di lì a poco sarebbe arrivata la siringa bollente. Mi tiravano giù le coperte, mi alzavano la maglietta, mi rovesciavano nella posizione ideale, fa vedere, fa vedere quel bel culêto santo, e zac la puntura a tradimento nel culetto santo. Gâstu visto che gnânche no te gâ sentîo? Quattro passate di alcool sulla parte interessata, no viôt l’ore di là tal jêt, oh beât tu frut che tu puêdis stà tal cialdùt tant che tu ûs, e la siringa, come previsto, ritornava nell’astuccio dal quale sarebbe uscita la prossima volta.
Adesso è diverso. Non ci sono i gatti e non c’è la gondola, hanno altri gatti da cui difendersi e altre gondole su cui dondolarsi, non occorre la levatrice, nè l’astuccio, nè la spiritiera, è sufficiente il fai-da-te, e per un culetto che non è più santo si combina lo stesso.
Comunque, tutto ciò non riguarda via Manin. Il vicoletto è stato rifatto, ripulito, ribattezzato e la stessa via Manin, a parte l’Aquila Nera che non c’è più, a parte le casacce della Cassa di Risparnuo che ci sono ancora, a parte la macelleria defunta che prima di morire si è tirata dietro la griglia ed è diventata una discarica piena di scontrini fiscali e di biglietti d’autobus scaduti, a parte la gelateria per ambulanti che sul far della sera, con il contributo determinante dei Piombi che vi mandano i loro rappresentanti, fa le ammucchiate stradali, permesso permesso, e nessuno si muove, e si continua a mangiare gelati, a parte questo via Manin è ritornata in pace.
Una stonatura soltanto. L’abuso che uno fa camminando sul marciapiedi. Dobbiamo stare attenti. Potrebbe ripetersi il caso di quel ciclista in bicicletta che la settimana scorsa, all’altezza della Filologica, ho fatto arrabbiare in quanto, lui pedalando ed io appunto camminando sullo stesso marciapiedi, non mi sono accorto, nonostante avesse suonato il campanello, che in due non si passava e sbadatamente ho tardato a togliere il disturbo.
Aveva ragione. Quando si cammina sul marciapiedi non ci si deve distrarre, può sempre capitare di imbattersi in un ciclista in bicicletta e di costringerlo magari ad aspettare che ci si decida a scendere sulla strada e a lasciargli intero il marciapiedi che gli spetta di diritto.
Aveva ragione. Non lo farò più.